Quando abbiamo inaugurato il nostro sito, noi di doppioverso ci siamo fatte una promessa solenne: ci siamo guardate dritto dritto negli occhi e abbiamo giurato che, nonostante i rispettivi caratteri tendenti al nevrotico e la propensione a scrivere sbrodolamenti ombelicali in stile splinderiano, in questo luogo-non-luogo non avremmo mai fatto polemica. Doppioverso, abbiamo stabilito, sarebbe stato il nostro morbido gattino virtuale, uno spazio in cui ridere, condividere e raccontare, che di posti dove si fa a gara a chi grida più forte è già pieno il mondo (e il Web). Però oggi, se non vi scoccia, vogliamo dedicare un quarto d’ora del nostro e del vostro tempo a dirvi perché secondo noi, se continuiamo a comportarci come stiamo facendo negli ultimi anni, noi traduttori (editoriali soprattutto) rischiamo davvero di fare la fine dei dodo.

Seguiteci, è una storia interessante.

Un breve cappello introduttivo: il dodo, come molti di voi sapranno, era un mastodontico uccellone delle isole Mauritius, dal becco simpatico e dal corpo pesante, con delle ali piccolissime che non gli consentivano di volare. Probabilmente volare non gli serviva nemmeno (a che pro, se vivi nel paradiso terrestre?) finché un bel giorno del 1599 non lo scoprì un ammiraglio della marina olandese, giunto lì per colonizzare l’isola, e decise di cacciarlo. A quel punto però, ahimé, il dodo non aveva più il tempo di adattarsi e imparare a volare. Lungo la “rotta delle Indie” il suo habitat divenne un passaggio quasi obbligato per le navi, e lui una preda fin troppo facile per i marinai. Successivamente l’isola divenne una colonia penale, e oltre ai detenuti  vi  furono portati  diversi animali (perlopiù maiali e ratti), che si moltiplicarono rapidamente. Il cibo per loro più facile da trovare erano le uova di dodo (un uovo per covata, come vedete non era creatura da sprecarsi neanche nella porchitudine, il povero dodo). Così, senza troppo clamore, lo sfortunato uccello si estinse: nel 1681, ad appena 82 anni dalla sua scoperta, non ne esisteva più nemmeno un esemplare.

Cosa c’entra tutta questa premessa con la nostra professione? direte voi. Beh, secondo noi c’entra parecchio, e ora vi spieghiamo perché.

Una delle cose che ci capita di dire più spesso quando qualche aspirante traduttore ci chiede come intraprendere la professione, è che prima ancora di iniziare deve avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: il nostro mercato è tragicamente in crisi. Il che è innegabile; come è innegabile che di fronte a questa crisi noi traduttori ci stiamo ponendo, a volte, in maniera un tantino scomposta e reazionaria.

Abbiamo l’impressione, sempre più spesso, che molti traduttori trovino difficile, quasi straziante, abbandonare l’immagine di sé che hanno cullato per decenni: quella di hobbysti della parola, di creature romantiche avvoltolate in un plaid sul divano con un gatto sulle ginocchia e un libro in mano. Come un dodo che rimanga a terra a farsi catturare, perché evoluzionisticamente incapace  di alzarsi in volo.

Le ragioni di quell’attaccamento sono molteplici  e in parte comprensibili: è facile cedere alla tentazione di sentirsi, facendo i traduttori, “intellettuali”. O guru. O mentori. O creature eteree perse nell’iperuranio dei propri sogni letterari. È facile pensare di non aver bisogno di aprirsi a nuove sfide, di valutare nuove prospettive. Ma in verità il nostro, fondamentalmente, è un lavoro come un altro. Noi manovalanza della cultura, noi artigiani della parola, noi ingranaggio della filiera editoriale, o comunque ci vogliate chiamare, facciamo quel che facciamo perché ci piace, magari, ma soprattutto perché è un mestiere, il nostro mestiere. Lo facciamo al meglio delle nostre possibilità, quasi tutti. Poi la sera lasciamo da parte il computer e guardiamo Violetta con i nostri figli o Criminal Minds col nostro compagno. Con i soldi che guadagniamo facciamo la spesa, paghiamo il mutuo o l’affitto, se ci scappa organizziamo le vacanze della nostra famiglia.

Di base, la traduzione è un mezzo. È un servizio che io ti fornisco. Non è un fine, né una questione di esaltazione intellettuale. E questo vale anche per la traduzione editoriale, ovvero il dodismo culturale per antonomasia. Vale cioè anche in quelle situazioni in cui, come diceva Quino in una celebre e illuminante striscia di Mafalda, a pagare il pollo che mangeremo a cena è stato Sartre.

Il cortocircuito, che offre il destro all’annosa e odiosa questione visibilità vs pagamento, nasce da un equivoco, un’illusione, dalla percezione che spesso abbiamo di noi stessi come creature che meritano riconoscimento per via di quel che fanno, per via del modo in cui si guadagnano da vivere. La verità è che la visibilità, se mai esiste, è dovuta al prodotto che realizziamo, prima ancora che a noi che l’abbiamo creato. Noi siamo solo dei prestatori d’opera, nell’accezione più costruttiva, bella, sana che si possa attribuire a questo termine. E ora più che mai è il momento di trarre profitto – e nuovi frutti – da questa consapevolezza.

Per questo, e per evitare che il dodismo ci porti all’estinzione, ci sono alcune cose che cerchiamo di ricordarci costantemente nella pratica quotidiana della traduzione (nel nostro caso non solo libraria; perché se il pollo non lo paga Sartre, potrà ben pagarlo un albergo a quattro stelle con dodici deliziose suite e letti king size). Sono i nostri mantra, ma possono agevolmente trasformarsi in consigli da passare sottobanco a chi comincia oggi, a quegli aspiranti traduttori di cui parlavamo all’inizio del post (e perché no, anche a qualche collega che ha già cominciato da un po’):

Pensatevi come lavoratori, e non come semplici appassionati. Non è tanto una questione di come ci vedono gli altri, perché quelli che ritengono che il lavoro altrui si possa pagare con le briciole e le promesse, ex post, se rimane qualcosa, ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre, e non solo nel nostro settore (credere e dare per scontato che sia un problema esclusivo dei traduttori rischia di diventare l’ennesima posa intellettualoide). Il nostro è un lavoro come tutti gli altri. Davvero. Bellissimo per noi, a tratti esaltante, ma non per questo diverso dagli altri (immaginiamo che anche un chirurgo plastico possa amare ciò che fa, ma non per questo lo vede come una missione laica). Se questo non lo capiamo noi per primi non possiamo pretendere che lo facciano gli altri.

Non chiudetevi in compartimenti stagni: esplorate nuove possibilità, associatevi, confrontatevi, deviate dal percorso che avete immaginato come “ideale”. Se avrete il coraggio di lasciarvi alle spalle le storture dell’editoria e della comunicazione, alleandovi con i vostri simili, esplorando e coltivando nuove opportunità anche e soprattutto al di fuori delle strade già battute, potrete accedere a uno scenario che oggi, più che mai, è carico di potenziali sviluppi per chi fa il nostro mestiere.

Last but not least, date fiducia a chi se la merita. Ci sono, e speriamo ci saranno sempre, nell’editoria e nel mondo delle imprese, committenti con cui è possibile confrontarsi e che rispettano il nostro lavoro, e con loro bisogna continuare ad avere scambi proficui e interessanti.

Voi che potete, non fate come il dodo: voi che potete, spiccate il volo.

Credits: Nell’immagine del post il dodo, il nostro eroe, per sempre nei nostri cuori come ce lo ricorda la Disney/Pixar in un capolavoro del cinema d’animazione, la bella favola di “Up“.

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