Essere social media coso in una casa editrice

Per la vostra immensa gioia, cari tutti, inauguriamo oggi la nostra nuova rubrica “E scrivicela ‘na cosetta”: uno spazio libero in cui periodicamente accoglieremo alcuni graditi ospiti – perlopiù freelance che ruotano intorno al mondo dell’editoria, della comunicazione e della cultura in generale – per sentire dalla loro viva voce un po’ di quello che fanno e di come lo fanno.

Il primo ad accettare il nostro invito è il giovanissimo, caustico e incorreggibile Moreno Scorpioni, l’Harry Potter della comunicazione social in ambito editoriale (e non solo: avete presente la recensione di Roar Magazine del film 50 sfumature di grigio che un mesetto fa ha fatto letteralmente esplodere Internet e che molto probabilmente avrete visto postata sulle bacheche Facebook dei vostri amici? Beh, l’ha scritta lui). Leggere per credere.

E ora la parola a Moreno!

Di cosa parliamo quando parliamo di brand identity, brand awareness e brand loyalty di una casa editrice? Fondamentalmente di niente ma ehi, guarda come piace questo post a Google!

Non siamo al settimo piano e mezzo di un grattacielo di New York, i nostri post non li scrive Kaufman e non siamo filtrati dalla lente di Spike Jonze. Siamo però in (quasi) ogni casa editrice, in un angolino, dietro un monitor, spesso con le cuffie e sicuramente con grandi occhiali per leggere numeri e statistiche che esaltano solo noi: siamo i social media cosi, ossia quelle persone che fanno crollare a picco la vostra produttività al lavoro grazie a contenuti brillanti (?) disseminati sui social che non dovreste usare in orario lavorativo. Voi.

A noi invece è toccato in sorte di viverci, dentro ai social. Dopo lauree in lingue, lettere o aramaico antico, chi per un verso chi per un altro siamo approdati in un mondo fatto di numeri, statistiche e ottimizzazione SEO. Da qui l’inevitabile domanda: a conti fatti, non era forse meglio laurearsi in statistica? Forse. Ma come diceva sempre la mia professoressa di storia del Giappone antico: «con i se e con i ma la storia non si fa.»

Ogni mattina il social media manager di una casa editrice si sveglia, pensa all’importanza di una strategia efficace, adotta metriche improbabili per conoscere al meglio il proprio target (il fu lettore), cerca di capire le sue passioni, i suoi orari e i suoi movimenti online (stalking) al fine di incastrarlo con contenuti vincenti che il malcapitato non potrà fare a meno di commentare o condividere, si deprime per le continue restrizioni che Facebook gli impone sulla organic reach, struttura attività di benchmarking e analisi dei competitor che manco da HarperCollins, si pone degli obiettivi, pianifica una content strategy vincente, budgettizza e mette tutto in un power point very bello (dovevo usarlo) salvo poi scontrarsi con il primo, insormontabile scoglio: «Interessante ma sai, in questo momento non abbiamo budget per queste cose». Un momento perpetuo.

Da qui in poi è tutta una corsa a cavalcare l’onda della #giornatamondialedellaqualunque, a tenere d’occhio le conversazioni di tendenza in cui inserirsi per far circolare la brand awareness, la consapevolezza del marchio online, a darsi man forte con colleghi che versano nelle stesse drammatiche condizioni animando community in stato di morte apparente cercando di portare a casa un qualsivoglia risultato che faccia pensare al grande capo che non sta buttando via i propri soldi. Il tutto senza postare gattini (che riversiamo poi nei profili personali) altrimenti la brand loyalty, la fiducia nel marchio dell’editore se ne va a puttane.

Sostanzialmente si lavora molto di brand identity, cioè si cerca di dare un’identità forte, definita e riconoscibile dell’editore che si rappresenta. Ancor più in soldoni: si raccontano i libri, che non è la stessa cosa di parlar di libri. Perché non basta la citazione dal romanzo o il dire che sì, è proprio un capolavoro: si cerca di raccontare il processo che l’ha portato alla luce, com’è nato, com’è stato scelto, perché proprio quello e non un altro. Si abbattono le frontiere, si comunica e si comunica davvero con il lettore, l’appassionato, nel tentativo di umanizzare quanto più possibile uno schermo.

Nel processo di umanizzazione del racconto ci sono pro e contro, naturalmente. Il più grande contro? La polemica. O meglio: la voglia di polemica, un problema con cui ogni social media manager che si rispetti si è trovato a fare i conti almeno una volta nella sua carriera (che poi basta la prima, dopo è tutta in discesa tra liste di moderazione e, nei casi più estremi, allontanamenti dalla community).

Tentare di spiegare il concetto di off topic in editoria equivale a essere tacciati di oscurantismo. Vero è che probabilmente manca un luogo, fisico o virtuale che sia per il dibattito e il confronto nel mondo della cultura. Una sorta di club del libro in cui però non si discuta solo del libro del mese ma in cui si esplorino tutte le tematiche legate alla filiera editoriale e in cui sia possibile un contraddittorio. Il dibattito, nel magico mondo del libro, quando e se nasce è intorno a un articolo/evento che generalmente catalizza l’attenzione di tutti gli addetti ai lavori per un paio di settimane e poco più. Sì perché i rari dibattiti che si accendono non riguardano questa o quella produzione o le pagine che Eco avrebbe copiato da Wikipedia, no. Il dibattito editoriale, nella stragrande maggioranza dei casi, si accende per dire che ogni anno in Italia sempre meno persone leggono libri, si accende quando un casa editrice chiude o quando qualcuno dichiara pubblicamente che un editore si è dimostrato insolvente in seguito a un lavoro commissionato. E state pur certi che in ognuno di questi casi comparirà lui, il nemico per antonomasia, il boss di fine livello: il troll editoriale.

Il troll del mondo culturale è quella bestia rara tra i Trenta/Quaranta che non lavora, almeno in apparenza, in ambito editoriale ma che conosce tutti, da sempre. Conosce i retroscena, le fusioni, le alleanze e le inimicizie e ha traccia di tutto ciò che avvenne ben prima che gli editori scoprissero Internet e i social netwok. È documentato talmente bene e talmente nel dettaglio da parcellizzare le informazioni in suo possesso facendo passare il messaggio che vuole, a seconda dei casi. In aggiunta a tutto questo, il troll culturale fa gran sfoggio di un linguaggio sofisticato e di giochini dialettici volti a mettere in ombra argomentazioni e principi “teoricamente” giusti. Perché mai dovreste imbattervi nel male assoluto? Perché, se lavorate nell’editoria, ai vostri capi sarà capitato di rimanere indietro con qualche pagamento, qualcuno si sarà lamentato e allora lui sarà stato lì, pronto a svelare complotti e altarini. E chissenefrega del fact checking.

Potrete seguire tutti i corsi e leggere tutti i post di crisis management che volete, la polemica, quando vorrà, accadrà. Anche su contenuti che non presentavano alcun grado di criticità. Secondo voi.

In questi casi, vale una e una sola regola: don’t feed the troll.

Ma si può sapere chi sei?

Sono nato a Perugia sul finire degli anni Ottanta, quando il computer emetteva strani rumori per connettersi alla rete e la Tv era piena di cartoni animati giapponesi, da cui il passo obbligato verso una laurea in Lingue e Civiltà Orientali. Massmediologo per vocazione, free lance per imposizione, scrivo online da quando il (la?) SEO era una chimera e Splinder andava per la maggiore. Nell’editoria ho mosso i primi passi in qualità di ufficio stampa nel 2010 per poi spostarmi gradualmente verso la comunicazione online e il social media marketing. Attualmente collaboro con Voland Edizioni e Pantomedia srl in qualità di social media strategist, con Roar Magazine in qualità di web content editor. Convinto che sia necessario avere più idee di quante mai se ne realizzeranno, nella vita faccio troppe cose e nel tempo libero progetto di farne altrettante.

 

Credits: La foto del post è di mkhmarketing ed è protetta da licenza Creative Commons.

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2 Commenti

  1. Non sapevo che “troll” fosse anche sinonimo di creditore imbufalito… perché, altro che fact checking, in certi casi basta condividere le fatture non saldate e pure lo sconforto per frasi come “indietro di qualche pagamento” che come eufemismo è da applausi.

  2. Ciao Chiara e grazie per il commento.
    Evidentemente c’è stato un fraintendimento o sono stato poco chiaro.
    Il troll editoriale non è di certo il creditore imbufalito che lamenta sulla pagina il mancato compenso, ci mancherebbe.
    Il troll editoriale è colui che alimenta quel tipo di polemica chiamando a intervenire soggetti terzi e quarti non implicati direttamente nella vicenda che denunciano un reiterato malcostume dell’azienda insolvente.
    Talmente reiterato da verificarsi addirittura prima che l’azienda nascesse.
    In quel caso serve il fact checking.

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