Che ci crediate o no, i traduttori hanno delle opinioni. Opinioni politiche, giudizi tranchant sulle gonne indossate dalle colleghe, favoritismi inconfessabili per questo o quel vip.

È solo che, in genere, viene loro sconsigliato di esprimerle. Un traduttore, ci insegnano all’università, deve farsi trasparente, essere come vetro, sparire dietro le parole e le idee dell’autore: anche se le sue parole sono cretine, anche se le sue idee sono ignobili. A parte qualche lievissimo tocco di editing, qualche frown amputato qui, qualche shrug mozzato di là, noi professionisti della parola altrui dobbiamo restituire tutto, anche ciò che non ci piace, con l’unica magra consolazione che se per tollerare meglio l’ingrato compito ci stappiamo una boccia di Brunello alle quattro di pomeriggio nessuno lo saprà mai, perché lavoriamo al sicuro, nascosti tra le quattro mura delle nostre casette immerse nella penombra.

Tra superpoteri e kryptoniti

È il nostro superpotere, questo mantello dell’invisibilità: il bravo traduttore è un agente sotto copertura, uno che si addentra in un’altra lingua e in un altro sistema culturale e porta alla luce informazioni criptatissime, manco avesse studiato a Quantico. Per i traduttori di testi turistici come me, però, l’invisibilità è anche un po’ una kryptonite. A noi, per strano che possa sembrare, viene chiesto di uscire spesso allo scoperto in modi che farebbero rabbrividire molti colleghi; l’inconfessabile domanda che ci facciamo a volte quando apriamo un nuovo file InDesign non è tanto: “Cosa voleva dire l’autore anche se a me non piace?” ma piuttosto: “Cosa vorrebbe leggere il lettore, anche se l’autore non lo ha scritto proprio così?”.

È quel “proprio così” il segreto del nostro lavoro, e il motivo per cui quel lavoro è tanto divertente e delicato. È anche molto più target oriented di quello di un traduttore editoriale standard: noi non abbiamo la libertà assoluta di riscrivere il testo come ci pare, ovvio, ma partendo da alcuni paletti e da linee guida precise godiamo di un guinzaglio lungo, per così dire, che ci permette di muoverci in un’area grigia che sta tra la traduzione autoriale, la localizzazione, l’adattamento, e nella quale dobbiamo imparare a muoverci bene, da subito. Il nostro territorio di caccia è più vasto e variegato di quello dei colleghi che fanno narrativa o traduzione tecnica, insomma: siamo come gatti domestici con un giardino gigantesco, dove possiamo sbudellare lucertole e rincorrere uccellini invece di star sempre arrotolati sul divano.

Un insanabile paradosso e una sfida quotidiana 

Diciamoci la verità: la traduzione di testi turistici è quanto di più vicino al marketing esista nel mondo della traduzione editoriale. Noi che lavoriamo tra onsen giapponesi, esibizioni di cavalli lipizzani a Vienna, chioschi di hamburger newyorkesi e giri in mongolfiera in Turchia non siamo molto diversi da chi vi propina quelle brochure patinate piene di termini come avventura, sogno, indimenticabile, piacere, relax, delizioso, dopo aver letto le quali tirate fuori la carta di credito e prenotate un tour in Tanzania per sei, senza manco aver preso le ferie e anche se siete single. Deve essere così, perché lo scopo del nostro tradurre è invitarvi ad abbracciare quel sogno, a farlo vostro, e a partire per nuove avventure, per una settimana indimenticabile di piacere e relax.

La nostra sfida quotidiana consiste nel chiederci come fare a vendere quel sogno rimanendo fedeli a noi stessi (in quanto traduttori e quindi di base moralmente portati alla trasparenza), al testo (che, nel caso ad esempio delle guide Lonely Planet può avere anche una forte impronta autoriale) e al lettore (che la guida deve comprarla per usarla e non solo per leggerla, e quindi è la reginetta del ballo, che ci piaccia o meno).

Il paradosso del traduttore di testi turistici è tutto lì: nel trovare un equilibrio impossibile tra fedeltà terminologica, adattamento del contenuto, tono autoriale. Le guide Lonely Planet in particolare sono un concentrato di linguaggi settoriali, ma anche di contraddizioni all’apparenza insanabili: l’anima di guida per viaggiatori indipendenti si scontra con lo scopo persuasivo di alcune parti più improntate al marketing; la voce autoriale cozza con un linguaggio che deve essere comunque risciacquato in Arno, laddove l’Arno in questo caso è l’indefinibile lonelyplanetosità che va difesa con le unghie e coi denti dagli assalti dell’individualismo di autori e traduttori; i testi di taglio pratico si sommano alla veste generale, più puramente narrativa; l’autorevolezza di un testo ideato per fornire informazioni pure si confronta col tono diaristico/reportagistico, quindi soggettivo al massimo grado, di molte pagine.

Una specie ibrida di traduttore (e di testi)

Se è vero che tutti i traduttori sono abituati a vedere il mondo da (almeno) due punti di vista, in noi traduttori turistici questa caratteristica diventa esasperata: alla lunga, a forza di immergerci in mille realtà distanti e diverse, noi diventiamo dei mutaforma, dei traduttori mannari, ed è questa forma di alterità radicale che ci permette di fare bene il nostro lavoro.

Quando leggete Una cosa divertente che non farò mai più (minimum fax, traduzione di Francesco Piccolo e Gabriella D’Angelo), librino magistrale in cui David Foster Wallace descrive la sua esperienza durante una crociera extralusso e satireggia con ferocia su questo tipo di linguaggio ibrido creando perle memorabili come il cielo che diventa sempre “l’immensa volta di lapislazzuli”, voi ridete. Noi no. Certe volte, per noi, il cielo è davvero un’immensa volta di lapislazzuli.

La verità è che così come una crociera di lusso non è un viaggio né una vacanza (e Wallace lo aveva capito benissimo), ma un mondo a sé che bisogna imparare a riconoscere e ad apprezzare per quel che è, allo stesso modo le guide non sono né testi di marketing né di narrativa, ma un mondo a sé, nel quale il traduttore deve tirar fuori sangue freddo e spirito di adattamento: durante la mia prima traduzione di una guida turistica mi sono sentita come se mi avessero paracadutata nella foresta amazzonica con una bussola, una chiave a brugola e niente altro.

Quando traduco testi di genere diverso non mi chiedo nemmeno se sono d’accordo con quello che ho davanti, al massimo se ci potrò pagare le bollette; traducendo testi turistici posso invece prendermi la piccola rivincita di riflettere su quello che leggo, decidere se è utile e giusto per il mio lettore, ed eventualmente modificarlo (perché no, amici autori Lonely Planet: se c’è sopra della banana non potete chiamarla pizza).

Credits: La foto del post è di Chris Ford ed è protetta da licenza Creative Commons.

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