Torna la rubrica doppioverso risponde: oggi parliamo delle famigerate note a piè di pagina: servono? Non servono? Sono il male? Andrebbero abolite? Secondo noi non necessariamente, e vi spieghiamo perché.

Ciao, mi chiamo Serena e sono un’aspirante traduttrice di 24 anni. Mi è capitato di recente di leggere il libro di Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. A un certo punto, Eco sostiene che le note a piè di pagina sono “una sconfitta” per il traduttore editoriale. Non credo però di aver capito in che senso: che c’è di male nelle note? Possiamo usarle quando traduciamo? E se non possiamo, come ci comportiamo di fronte a qualcosa che non siamo riusciti a risolvere?

Qualche tempo fa ho letto un articolo del traduttore Ervino Pocar che esordiva così: “Comincio con un’affermazione, precisa, apodittica: tradurre è impossibile.”

Mi è sembrata un’affermazione un tantino roboante ma di base molto vera: quando diciamo che tradurre è impossibile, stiamo in realtà dicendo che, soprattutto quando affronta una traduzione editoriale, il traduttore sa che la prima consapevolezza da far propria per ottenere un buon risultato è la seguente: ogni traduzione è una scommessa sulle intenzioni dell’autore, e qualcosa di quelle intenzioni andrà senza dubbio perso per strada.

Rassegnati alla perdita

Come abbiamo infatti già detto altrove, anche nella migliore delle ipotesi, il risultato dei nostri sforzi di traduttori sarà sempre un’approssimazione. Non tutto ciò che compare nell’originale e vorremmo e dovremmo restituire finirà nella nostra pagina tradotta: anzi, il traduttore deve rassegnarsi molto presto alla perdita, perché perdere fa parte del nostro mestiere. E proprio perché in ogni traduzione è insita una certa quantità di “perdite”, ogni traduzione lascia dei residui, cioè delle problematiche irrisolte.

Chi non si è mai trovato alle prese con giochi di parole che è impossibile rendere in italiano senza modificarli o snaturarli, neologismi, espressioni che identificano oggetti culturospecifici? La domanda fondamentale, quando capita, è come porci nei confronti di questi residui. Vogliamo addomesticarli? Spiegare il termine incomprensibile con due righe aggiunte in un inciso? Modificare il gioco di parole perché abbia senso in italiano? Inserire una nota a piè di pagina che spieghi esattamente il significato di quel neologismo, o perché è impossibile restituire intatta quella battuta?

Le note a piè di pagina

Le note a piè di pagina si sono guadagnate, più di ogni altro intervento (a gamba più o meno tesa), la fama di Mordor della traduzione, di luogo dove tutte le buone intenzioni del traduttore vanno a morire. E sebbene abbondassero nelle traduzioni di qualche decennio fa, negli ultimi anni i traduttori editoriali (soprattutto quelli che si occupano di narrativa) hanno imparato a vederle come il male assoluto, il nemico da combattere a ogni costo. Questo, forse, perché la nota era diventata la facile scappatoia per i traduttori che non riuscivano a risolvere un problema controverso o un gioco di parole. Invece di sciogliere la questione, di trovare una soluzione credibile, si preferiva spiegare in nota ciò che si era lasciato indietro e andare a prendersi un cappuccino con tanta schiuma. Non era sempre una colpa, beninteso: la distanza culturale tra originale e traduzione poteva un tempo essere incolmabile.

Ma oggi , all’epoca di dio Google, è ancora così? Se grazie al magico World Wide Web è possibile sciogliere (sia per noi che per i lettori) anche i dubbi più intricati, scoprire anche la parolaccia adolescenziale più fresca di conio, la nota serve davvero?

Sparire dietro l’originale è sempre un bene?

Forse questa ostilità tanto accesa verso le note ha a che fare con l’aspirazione all’invisibilità dei traduttori, soprattutto editoriali: le nostre note, ci pare, disturbano più di quelle di un autore o di un curatore, perché per queste due figure l’invisibilità non è una priorità, o una condizione implicita nel mestiere, mentre per noi scomparire è un pregio. O forse, in alcuni rarissimi casi, si tratta di arroganza. Di “tigna”, diremmo a Roma: ci incaponiamo a trovare una soluzione perché sì, e basta. Perché noi valiamo. Perché, appunto, la nota è una dichiarazione esplicita di impotenza. Usandola, il traduttore confessa di non essere riuscito a trovare una soluzione elegante o funzionale (o meglio ancora, entrambe le cose) al problema presentato dal testo originale.

Eppure io credo che la soluzione a ogni costo rischi di condurci su una china scivolosa: mettendo in atto una manipolazione di cui il lettore è inconsapevole (ad esempio modificando sostanzialmente l’ambientazione di una barzelletta perché la barzelletta “regga” anche in italiano, o esplicitando ciò  che nell’originale non era esplicito, come quando, pieni di zelo, traduciamo hijab come “l’hijab, un particolare tipo di velo islamico che copre solo la testa e le spalle…”) sembriamo dire che il lettore non è in grado di sentire la perdita rispetto alla lingua originale.

Quella perdita, pensiamo noi traduttori, è solo nostra, ce ne facciamo carico per risparmiarla al lettore (siamo per lo più donne e siamo italiane, del resto, stiriamo noi le camicie per tutta la famiglia): ma che succede quando anche lui/lei è in grado di percepirla? Altri colleghi sostengono che, soprattutto quando si è di fronte  a un libro fortemente autoriale, in cui la lingua stessa dell’originale si rifuta di essere “trasparente” (a proposito di quest’idea vi rimando allo spesso citato e indispensabile post della collega Federica Aceto), la vera sconfitta è non riuscire a comunicare al lettore cosa diceva davvero il testo, nascondergli ciò che in origine era dietro il nostro più o meno brillante gioco di parole.

Di recente mi è capitato di trovare in un romanzo una situazione non facile da gestire. Lui e lei, giovani, americani, non ancora innamorati ma sul-punto-di, vanno a una festa di Halloween. Mentre valutano come vestirsi, lui si lascia sfuggire un lapsus piuttosto osé; per salvarlo dall’imbarazzo, e divertita più che risentita, lei coglie la palla al balzo e suggerisce un costume di coppia: saranno un “freudian slip”, un lapsus freudiano. Lui sarà Freud in persona, con tanto di barba, panciotto e proverbiale sigaro, lei indosserà una sottoveste (slip, in inglese) con una scritta rossa, “freudian”.

Come rendere il gioco? Era impossibile mantenere il fatto che lui facesse una gaffe e che lei usasse il suo lapsus per suggerire un costume, tanto quanto era impossibile salvare la natura stessa del costume (noi, che io sappia, non abbiamo capi di abbigliamento che si chiamano lapsus; se ne avessimo, ne vorrei subito una decina). Dopo lunghi rimuginii e consultazioni coi colleghi (che prevedevano varie ipotesi, tra cui quella – improbabilissima ma dettata dalla disperazione – di legare la gaffe di lui a un’affermazione imabrazzante sulla madre, a cui lei avrebbe risposto di vestirsi da complesso di Edipo con una maglietta di una band rock ribattezzata appunto Edipo), io e la redazione ci siamo resi conto di una cosa: ai fini del racconto, per la natura stessa del romanzo, e in virtù della dominante di quel testo in particolare, salvare il gioco di parole, o ricrearlo (nemmeno troppo abilmente, ammettiamolo), non era indispensabile. Era più importante che il lettore cogliesse il momento di tenerezza in cui lui faceva una gaffe e lei, sul punto di innamorarsi, sdrammatizzava un episodio altrimenti imbarazzante per lui, confermandogli di essere dalla sua parte.

Abbiamo quindi lasciato il lapsus. E la sottoveste. E la gaffe a sfondo sessuale di lui. E abbiamo messo una bella, concisa, efficace nota a piè di pagina. Con buona pace di tutti.

Sì, ok, insomma?

Sì, vabbè, ma insomma? Come dobbiamo affrontare l’intraducibile noi traduttori (e la povera Serena)? È possibile, pur senza definire una regola valida per tutti, identificare almeno qualche principio di massima? Forse sì.

  • Quando possibile, soprattutto nei romanzi, è meglio evitare la nota per non spezzare la lettura.
  • Se la nota è una resa, ossia una scelta dettata dal “non so come risolvere questa cosa, mi arrendo, metto una nota e vado a prendere un cappuccino con tanta schiuma”, rimandiamo il cappuccino e continuiamo a cercare una soluzione più efficace.
  • Se invece la nota è la soluzione migliore a cui siamo giunti dopo lunghe riflessioni, evitiamo di fustigarci e di darci ai tripli salti mortali carpiati pur di non accoglierla nel nostro racconto purissimo e ininterrotto.
  • Ricordiamoci sempre che non tutte le nostre traduzioni sono letteratura d’alto livello, quindi molto dipende anche dal tipo di testo che stiamo affrontando.

Se inseriamo anche questa variabile, infatti, le domande si spostano e si moltiplicano: la dominante del testo influenza la nostra decisione su come gestire le perdite e i residui traduttivi? La perdita è più grave in un romanzo di intrattenimento o in un romanzo d’autore? Mettere una nota nel libro di un autore per cui sappiamo che ogni termine, ogni gioco linguistico, hanno un peso specifico, è peggio o meglio che inserirla in un romanzo in cui l’importante è che la trama scorra liscia?

Non posso dirvi, a priori, come rispondere a ciascuno di questi dubbi. Però mi pare che l’eventuale risposta (che solo il traduttore può dare, volta per volta) contribuisca in qualche modo alla decisione finale. Come contribuiscono, nel nostro mondo in cui “dipende” sembra essere la parola d’ordine per tutto, la nostra sensibilità, l’esperienza e la consapevolezza che nel nostro mestiere non esistono regole stabilite una volta per tutte, ma che (per fortuna!) ogni testo è un universo a parte, che impariamo a navigare solo immergendoci tra le sue righe (e a volte, ahimè, nemmeno allora).

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