Quando ho cominciato a tradurre in ambito editoriale, qualche anno fa, ero di un’ingenuità disarmante. Non che fossi completamente sprovveduta (ero stata per oltre un anno la responsabile dei diritti in una casa editrice, quindi  sapevo quel che c’era da sapere su contrattualistica, numero di battute per cartella standard, filiera editoriale e cessione dello sfruttamento economico di un’opera di ingegno), ma per certi versi mi sono buttata nella traduzione con lo stesso spirito con cui un pirata affronterebbe i flutti: niente affatto sicuro di dove (e se, o quando) approderà e spinto di una buona dose di incoscienza alcolica.

Il fatto è che, per quanto abbastanza informata, ero caduta preda del demone dell’entusiasmo, quello che ti fa sventolare il primo contratto di traduzione come se fosse una torcia olimpica perché adesso sei un traduttore editoriale. Il demone dell’entusiasmo ti convince che non ti serve null’altro che la fiducia, il sogno, la passione, per essere un traduttore editoriale, che tanto c’è posto per tutti, l’importante è l’impegno. Ti racconta che non devi affatto studiare questioni fiscali per affrontare questo mestiere fatto di parole e ispirazione: quelle faccende te le sbroglierà il commercialista. Ti sussurra che visto che ti piacciono tanto i libri, puoi farcela senza grossi sforzi. Come potete immaginare, il demone dell’entusiasmo di rado è un bravo consigliere.

Ci sono rivelazioni, dritte o semplici informazioni che all’epoca dei miei esordi mi avrebbero aiutata a capire subito come navigare in situazioni poco chiare, agendo nel mio interesse e tutelando anche i miei colleghi, e che per fortuna ho acquisito abbastanza in fretta negli anni successivi. Si tratta del tipo di cose che quando si svolge questo mestiere da un po’ si tende a dare per scontate (“ma figurati se uno non lo sa!” è il mantra del traduttore navigato, e non del tutto a torto, perché certe cose, in effetti, bisogna saperle per lavorare bene), ma che per gli esordienti hanno il valore delle pepite d’oro che zio Paperone recuperava a colpi di piccone durante la corsa all’oro nel Klondike.

Siccome a noi di doppioverso capita spesso di ricevere e-mail in cui futuri colleghi ci chiedono aiuto, consigli, illuminazioni sulla via di Damasco, abbiamo deciso di raccogliere in un post le domande più frequenti, i dubbi più intricati, le questioni più spinose, per quanto banali possano sembrare a noi  veterani, e di fornire, per quanto ci è possibile, qualche risposta.

E la prima, di risposta, arriva subito. A tutti quelli che, in questi mesi di frequentazione virtuale, ci hanno chiesto: “ma una volta appurato che sono in grado di farlo, che in teoria sarei bravo, qual è un buon punto di partenza per diventare un ottimo traduttore?”, dico che questo è un buon punto di partenza. Queste domande, queste risposte, e la consapevolezza che il demone dell’entusiasmo è sempre in agguato, a qualsiasi età e indipendentemente da quanto siamo scafati, perché a volte certe risposte ci erano sfuggite, a volte qualcuna ce la dimentichiamo strada facendo, qualche altra non ci piace e facciamo finta di non vederla finché possiamo. Occhio, quindi. E buon picconamento, allo Zione piacendo.

1. Traduttore editoriale e traduttore letterario sono la stessa cosa?

Non esattamente. La traduzione letteraria, possiamo dire, è una branca della traduzione editoriale. I traduttori editoriali sono quei traduttori che lavorano per l’editoria, o che comunque creano traduzioni tutelate dal diritto d’autore. Indipendentemente dal tipo di committente, chi traduce un’opera di questo tipo  realizza un’elaborazione creativa che viene riconosciuta come opera autonoma (ovvero, per definizione di legge, un’opera dell’ingegno, assimilabile alla creazione di uno scrittore); al suo autore, ovvero il traduttore, la legge riconosce tutti i diritti morali e patrimoniali sulla stessa. Rientrano nel diritto d’autore anche prodotti diversi dai romanzi o saggi, come le guide turistiche, le riviste, i fumetti, le opere teatrali…

2. Esiste un tariffario standard o un albo?

No, non c’è nulla del genere. La questione delle tariffe è una delle più dibattute e intricate del nostro mestiere. Non sono molti i traduttori che si sbilanciano pubblicamente su quali siano i compensi minimi sotto i quali né un esordiente né chi lavora da qualche anno dovrebbero scendere, e d’altronde il nostro è un libero mercato, per cui la concorrenza è la norma. Ma una cifra di massima, la si può fornire? E perché alcuni editori pagano poco? In una recente intervista per “Il Mattino di Padova” la collega Anna Mioni ha spiegato la situazione in modo semplice ed esauriente: “In questi anni in cui le università e la scuola non assorbono laureati, l’editoria è stato uno sbocco. Ora è in crisi e sottopaga. O addirittura non paga. Molti di noi avanzano soldi che probabilmente non vedranno mai. Come sindacato abbiamo valutato che per tradurre bene ci vuole un’ora a pagina. Se non la si paga almeno dodici euro non si sopravvive. C’è chi ne paga cinque”.
Va da sé che più la lingua da cui si traduce è diffusa, più aumenta la concorrenza, e più sarà difficile spuntare compensi alti. Difficile ma non impossibile: la capacità di contrattazione è uno dei superpoteri del traduttore in gamba, e (buono a sapersi!) si impara.

3. Ma è vero che l’editoria è un mondo di squali? Che i colleghi cercano sempre di farti le scarpe e gli editori di sfruttarti? Come mi difendo?

Anche qui, sì è no. Alcuni editori sono ben felici di sfruttare e sottopagare i traduttori, che vedono solo come bassa manovalanza con poche possibilità di rivalersi in caso di contenzioso (e ahimè, in parte hanno ragione, almeno su quest’ultimo punto). Altri invece riconoscono al nostro lavoro la dignità e l’importanza che merita, anche in termini economici. Martina Testa, co-curatrice della nuova collana di narrativa angloamericana Big Sur per la casa editrice SUR, parla ad esempio di “una modalità di lavoro basata 1) sul continuo, libero scambio di idee e di stimoli all’interno della casa editrice, 2) sulla cura per i dettagli in ogni fase della lavorazione dei libri, 3) sulla creazione di una comunità che dalla casa editrice si estende ai collaboratori esterni, ai traduttori, gli autori, i librai, i lettori.” Allo stesso modo, come aveva osservato Chiara in un post di qualche settimana fa, tra i colleghi si nascondono potenziali alleati quanto future serpi in seno. Tutto sta a informarsi il più possibile: solo conoscendo molto bene il territorio sul quale ci muoviamo possiamo sperare di averne il controllo.

4. Di traduzione editoriale si vive (bene)?

Onestamente, è difficile. Il mercato editoriale attraversa una crisi profonda e trasformazioni epocali, che accentuano una situazione economica già problematica in origine. La traduzione editoriale non è un hobby di lusso, però, è un mestiere a tutti gli effetti: chi intraprende questo percorso deve essere sì consapevole delle difficoltà  che incontrerà, ma anche disposto a mettere (ottimisticamente) in campo azioni individuali e collettive che possano rendere il futuro della categoria più roseo e ricco. In tutti i sensi.

5. Si può lavorare come traduttore stipendiato per una casa editrice?

No (o meglio, è virtualmente impossibile). Può capitare che un traduttore inizi una collaborazione continuativa con una o più case editrici, lavorando con loro su più libri, ma per ciascuno di quei lavori traduttore e committente stileranno un nuovo contratto.

6. Un traduttore è un libero professionista, giusto? Vale anche per i traduttori editoriali? Nel senso che devo aprire la partita IVA?

Se un traduttore lavora in via esclusiva come traduttore editoriale non ha bisogno di partita IVA, pur essendo un libero professionista a tutti gli effetti. Poiché, come dicevamo, l’opera di un traduttore editoriale ricade sotto il regime del diritto d’autore, la contrattualistica e la fiscalità relative al suo lavoro rispettano regole specifiche. Utilissimi per capirne di più l’approfondimento sul diritto d’autore elaborato dall’AITI e il Vademecum fiscale e legale elaborato da STRADE (che offre anche, qui, qualche informazione di base sull’argomento).

7. Cosa comporta essere pagati a cartella? E cos’è una cartella?

La cartella editoriale è l’unità di misura del compenso del traduttore (e non solo). Si tratta di una pagina di 2000 battute (a volte, ma più di rado, 1800), inclusi gli spazi. Essere pagati a cartella (la prassi nel mondo editoriale ma non necessariamente l’unica opzione) significa che editore e traduttore concordano un compenso calcolato appunto sulla cartella (ad esempio: 16 euro a cartella di 1800 battute). Una volta terminata e consegnata la traduzione, il traduttore e l’editore verificheranno di quante cartelle consta il file consegnato (e rivisto dalla casa editrice), e di conseguenza qual è il compenso dovuto al traduttore.

8. Esistono siti affidabili dove trovare offerte di lavoro? Ci sono liste di traduttori, forum, associazioni di categoria o siti di discussione aperti agli esordienti?

Non esistono siti specifici che pubblichino annunci di lavoro per traduttori editoriali. Il traduttore che voglia lavorare il più possibile deve impegnarsi a coltivare i propri contatti, incontrando , realmente o virtualmente,  i propri committenti, gli editori.
Riguardo invece alle liste o ai siti, a parte le già citate associazioni di categoria (AITI e STRADE), un buon posto da cui iniziare a familiarizzare con i colleghi è Biblit, spazio virtuale attorno a cui si raccolgono molti traduttori editoriali, dove trovare consigli, informazioni, aiuto pratico. Ci sono poi le pagine e i forum su Facebook, le riviste di categoria (online e non), i blog: dall’avvento della Rete, i traduttori non sono più soli.

9. Che differenza c’è tra prova di traduzione e proposta di traduzione?

La prova di traduzione è un saggio delle capacità del traduttore che l’editore richiede quando vuole assegnare un nuovo lavoro. Prima di firmare il contratto, l’editore può cioè domandare al traduttore di tradurre un estratto del libro in corso di contrattazione (il numero di pagine varia in genere da 5 a 10-12, e spesso si tratta dell’incipit del testo) per verificare che il traduttore sia in grado di svolgere al meglio il compito che gli verrà assegnato. Alcuni colleghi non amano questa pratica, perché ritengono impossibile “entrare nel vivo” del libro traducendone solo poche pagine, e credono quindi che questo sistema di valutazione li penalizzi; per altri è invece uno strumento molto utile, che permette anche a noi traduttori di misurarci col testo e con le esigenze della casa editrice, aggiustando eventualmente il tiro su alcuni dettagli prima ancora di iniziare il lavoro vero e proprio.
La proposta, invece, come implica il nome stesso, è un suggerimento che parte dal traduttore verso l’editore; a volte noi traduttori scoviamo libri stranieri che ci piacciono in modo particolare, e la proposta serve a informare un editore potenzialmente interessato dell’esistenza di quel libro, e della nostra volontà di tradurlo. Per capire come scrivere e presentare una proposta, guardate questo post di Thais Siciliano, esaustivo e molto puntuale.

10. Per fare il traduttore editoriale è necessario possedere dei requisiti particolari (laurea in lingue, scuola di interpreti e traduttori ecc)?

No. Naturalmente è indispensabile una perfetta padronanza della lingua (o delle lingue) da cui si traduce e un’altrettanto perfetta padronanza dell’italiano (e certo non guasta una conoscenza impeccabile del mercato editoriale italiano e di quello della lingua straniera che frequentiamo), ma non sono richiesti titoli di studio particolari. Certo è che il nostro è un mestiere complesso e la situazione in cui lo esercitiamo è tutt’altro che limpida: un po’ di pelo sullo stomaco e molto pragmatismo, a conti fatti, potrebbero rivelarsi gli strumenti più utili.

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