Poco prima di Natale, nell’ansia pre-pacchetti dei primi di dicembre, noi di doppioverso avevamo avuto un’idea: fare un regalo ai nostri lettori (e soprattutto ai nostri colleghi traduttori editoriali) realizzando un numero speciale di Found in Translation.

Doveva essere un numero tematico, che chiudesse l’anno appena trascorso come una cerniera perfetta: e visto che eravamo vicine a Natale, alle vacanze, alla prospettiva di ore e ore libere da trascorrere davanti a un caminetto in compagnia di un buon libro, ci siamo dette: perché non fare uno speciale sulla ritraduzione dei classici? Ci vogliono le vancanze per (ri)leggere i classici, perché chi ha più tempo di farlo, ormai?

Così abbiamo contattato tre colleghe bravissime, che hanno accettato di raccontare il loro recente corpo a corpo con alcuni mostri sacri della letteratura mondiale. Ma come recita un bel detto yiddish, l’uomo fa progetti e Dio se la ride. Per varie ragioni che hanno a che fare con la nostra tendenza ad avere idee geniali ma attuarle all’ultimo momento, e con la natura stessa del traduttore, che come sapete è un animale che prospera sotto scadenza costante, il numero speciale è slittato a gennaio, a oggi.

Be’, ne siamo felicissime. Perché il senso ultimo dello scambio con Claudia Zonghetti (ritraduttrice per Einaudi di un’Anna Karenina di prossima uscita), Monica Pareschi (che ci parla delle sue due Brontë, Charlotte ed Emily, l’una ritradotta per Neri Pozza e l’altra di prossima uscita per Einaudi) e Yasmina Melaouah (che ha affidato ai tipi di Feltrinelli il suo nuovo Piccolo Principe) ci è sembrato più adatto a cominciare un anno che a finirlo: leggendo i loro pezzi, abbiamo infatti capito che ogni ritraduzione è in realtà un nuovo inizio, un microcosmo a sé stante, che in parte dipende dai suoi precedenti e in parte li ignora, volando, quando la ritraduzione è ben fatta, verso altri lidi, sempre più in alto.

Affrontare da (ri)traduttori un titolo immortale può essere una sfida da far tremare le vene ai polsi: ma quando a cimentarsi nell’impresa sono tre traduttrici come Claudia, Monica e Yasmina, il successo è garantito.

 

Il sogno della secchezza
(ri)tradurre Il Piccolo Principe

A novembre ogni anno comincio a fare un giro alla Feltrinelli per cercare l’agenda dell’anno successivo. È un bel rito, antichissimo, che salda passato, presente e futuro, giorni già scritti e giorni da scrivere. E ogni anno, puntualmente, mi tocca rovistare fra montagne di principini. Sulle copertine delle agende, intendo. Montagne di quegli scarabocchietti dai colori slavati, montagne di riproduzioni di quella figurina rudimentale che a quanto pare al potere miracoloso dei santini di Padre Pio ci fa un baffo. Tanto che, ben presto, persino gli spocchiosi di finto sinistra siamo-tutti-Chatwin delle agende Moleskine hanno dovuto arrendersi alle divisioni corazzate del moccioso biondo, che ora campeggia in una serie tutta per sé.

Non c’è agenda, non c’è biro, non c’è tazza, non c’è maglietta, non c’è borsa e, ahimé, soprattutto non c’è cervello di madre che non sia stato colonizzato dal magico potere del Piccolo Principe. Un compagno di mia figlia, alle elementari, aveva una mamma secca, efficiente e sbrigativa: credo avesse acquistato forse a prezzo di fallimento alcune derrate del romanzino nella storica edizione Bompiani. A ogni compleanno di un bambino della classe, puntuale come il mago assoldato per intrattenere i pargoli, lei ne propinava una copia al povero festeggiato. Nonostante l’efficienza, a volte si confondeva e alcuni bambini conservano ancora svariate copie del libriccino. Ovviamente toccò anche a mia figlia. E ricordo ancora con immutato orgoglio materno il suo sguardo gelido di angioletto di otto anni che mi fissava con espressione di disappunto mentre le sciorinavo senza troppa convinzione i dogmi insulsi, il pericoloso bigottume del petulante moccioso biondo. Era proprio mia figlia. Lei amava Roald Dahl, pura, squisita, onesta, meravigliosa, intelligente cattiveria.

Insomma. Quando qualche anno fa Feltrinelli mi propose di curare la ritraduzione de Le petit prince non ho pianto di gioia. Non mi era mai piaciuto, quel librino, non avevo mai capito il suo successo. Ovviamente ho finto, ho stirato i muscoli della faccia in uno sgorbio di sorriso e ho detto sì. Sono tornata a casa. Era giugno. Faceva caldissimo, in quei giorni. Un orribile caldo umido. Ho aperto il libretto. E mi son detta che per cominciare, e per arrivare dignitosamente alla fine, non dovevo in primo luogo guardare i disegni. “Dimentica le tazze, Yas, dimentica le agende, le magliette e la mamma secca con le derrate di principini.”

Ho stampato il testo nudo. Solo parole. Andava già meglio. Sono frasi asciutte, lambite di silenzi, vagamente oracolari nel tono. Tutta la melassa appiccosa che dilaga dalle cartolerie e dal reparto agende della Feltrinelli, dalle stanzette dei poveri bambini e dai comodini dei banchieri che la sera prima di addormentarsi vogliono sentirsi buoni, tutta quella glicemia calava.

“Questo caldo umido è perfetto”, mi dicevo in quel giugno torrido. “Sono condizioni ideali, perché ogni sbavatura melensa diventa insopportabile. Il sogno della secchezza mi sostiene.”

Leggevo una bella biografia di Saint-Exupéry e pensavo a quell’uomo goffo e un po’ malinconico che si sentiva bene solo quando pilotava i suoi aerei, tanto da morirne, proprio in un incidente aereo. Pensavo alla sua solitudine e al marketing chiassoso in cui è finito stritolato il suo libretto. E alla fine i voli solitari di Antoine e la pura verità della pagina, che è fatta di parole e non di buoni sentimenti né di insegnamenti di vita, mi hanno riconciliato con il Piccolo principe.

Yasmina Melaouah si è laureata in letteratura francese moderna e contemporanea. Insegna traduzione letteraria all’Istituto Interpreti e traduttori di Milano. Ha tradotto, fra gli altri, Daniel Pennac, Patrick Chamoiseau, Fred Vargas, Colette, Jean Genet, Andrei Makine, Laurent Mauvignier, Mathias Enard, Alain Fournier. Nel 2007, in occasione delle Giornate della traduzione di Urbino, ha ricevuto il premio per la traduzione del Centro Europeo per l’editoria.

I miei anni con loro
Appunti sul (ri)tradurre Charlotte e Emily Brontë

Ho passato gli ultimi anni della mia vita a ritradurre le Brontë. Detto così suona male – e parecchio enfatico. Naturalmente ho fatto molto altro: ho lavorato – ad altro –, scritto, fatto la mamma, fatto la spesa, letto, giocato, ragionato, litigato, camminato, cucinato, persino amato. Sono stata in vacanza. Sono stata felice, infelice, distratta, delusa, divertita, annoiata, esaltata, depressa, confortata. Ho pubblicato un libro mio e l’ho portato un po’ in giro. Insomma ho vissuto. E però questi sono stati, in gran parte e forse in primo luogo, gli anni delle Brontë. Ho passato molto tempo con loro: non solo a ritradurre quei due monumenti letterari e pop che sono Jane Eyre e Cime tempestose, ma soprattutto a pensare a loro, e, in un certo senso, a dialogare con loro; a osservarle dialogare tra loro. Mentalmente, prendevo appunti. Vediamo.

Ridere. Si impara da piccoli, e non è la prima cosa che viene in mente pensando alle bambine di salute cagionevole in grembiale e pettorina, compunte al desco del vicariato nordico, raggelate nel deo gratias davanti alle scodelle di porridge, e poi alle giovani istitutrici nerovestite e pallide, certo più avvezze ai freni imposti dalla modestia vittoriana. Eppure è quasi certo che si ridesse anche, a Haworth, oltre a leggere pregare bere studiare patire morire di tosse e di freddo. Ridono Jane e Rochester, flirtando con gusto e beccandosi e rimbeccandosi per tutto il tempo che dura il loro corteggiamento, ho riso io con loro inventandomi la lingua divertita della punzecchiatura e dell’understatement amoroso. Ride Jane descrivendo i  damerini impomatati e vagamente beoti che circondano Blanche Ingram: ride, di loro e perfidamente, Blanche Ingram. Ride persino quel truce monolite che è Heathcliff, o meglio sghignazza sadico mentre umilia e ferisce. Ride la governante Nelly, ai danni del macilento, antipatico Linton Heathcliff, ride di lui e lo sbeffeggia quell’impertinente di Cathy Linton. Il riso, sottile, malizioso, robusto, godurioso in Jane Eyre risuona invece tragico, cupo o  grottesco in Cime tempestose, culminando nello humour bislacco di quel babau puritano che è il servo Joseph.

Voci. La voce eloquente, appassionata, ironica, intelligente di Jane. L’adorabile voce burbera di Rochester, tutta gaffe e tenerezze. La voce abbaiante e rabbiosa di Heathcliff: il lupo, il cane. La voce stizzosa di Joseph, quella troglodita e innamorata di Hareton, la voce inaffidabile di Nelly e quella pettegola della signora Fairfax. Trovare le voci.

Pietra. In Jane Eyre tutto è plastico, progressivo, in movimento. Si torna, ma mai nello stesso luogo: perché i luoghi mutano, bruciano, rovinano, si fanno altro. Così Gateshead, Thornfield, Moor House. Nel romanzo di Emily vince la pietra: tutto è immutabile, statico, conchiuso; lo spazio illusorio fra Thrushcross Grange e Wuthering Heights è il palcoscenico obbligato dell’andirivieni perpetuo dei personaggi, e c’è qualcosa di dantesco nel loro supplizio. Quel tratto d’erba, erica e roccia è la beffa del carcerato. Tutto è rupe e secca brughiera. Spazio-prigione e persona si equivalgono. Heath-cliff.

Nomi. Heathcliff, naturalmente. Lockwood. Ma anche Brocklehurst, Gateshead, Thornfield, St.John.  E poi Heathcliff/Heathcliff, Catherine/Catherine, Linton/Linton. I nomi non si traducono, ma ascoltarli bisogna.

Amore. C’è l’amore-relazione di Charlotte e c’è l’amore-passione di Emily. L’amore-relazione muta, si muove, progredisce, si guasta, si aggiusta. L’amore-relazione è educazione all’amore. Alla fine un uomo cieco e sfigurato è condotto all’altare da una ragazza che, per così dire, ne ha fatta di strada. Reader, I married him. L’amore-passione, semplicemente, è: non diviene, e a ben guardare non nasce neppure. È immanente e minerale. Contiene tutto, e soprattutto: odio, vendetta, invidia, dispetto, rivalsa. È sadico, masochista, dannato e necrofilo. Nella sua incapacità a mutare, è morto in partenza. Non ha bisogno di consumarsi, ma consuma. L’amore-passione non ha compassione.

Casa, cortile, giardino. La casa gotica di Jane Eyre - la camera rossa degli orrori e degli incubi, il collegio sadico-vittoriano, il castello con soffitte segrete che celano mostri; ma anche la dimora raffinata nel parco, piena di salotti con tappeti e tendaggi e boiserie e pianoforti - si sdoppia nella casa della luce con grandi finestre aperte sulla civiltà raziocinante e limitata del giardino e nella casa del buio, rozzamente scolpita nella pietra, la casa con l’immenso focolare, e feritoie che escludono l’aria, e una corte che la chiude al mondo. La casa del conflitto e della conciliazione; la casa della barbarie e la casa della civiltà, contrapposte e racchiuse in un’unica prigione.

Mondo. L’altrove nominato di Jane Eyre – Parigi, Madeira, la Giamaica – è un altrove imprecisato e innominabile in Wuthering Heights: qual è l’origine di Heathcliff? dove ha guadagnato i soldi che gli permetteranno di tornare, rovinare Earnshaw e appropriarsi della casa? e persino: di che colore è esattamente la sua pelle?

Follia. La follia è esterna, confinata e infine estromessa da Thornfield ma è endogena a Wuthering Heights. Se Bertha Mason è il rimosso sessuato e animale della femminilità vittoriana, si può dire che a Heathcliff tocchi il singulto onanistico della sessualità duale negata, o la compensazione femminicida di una castrazione autoinflitta?

Ritradurre. Sono debitrice di tutte le precedenti traduzioni che conosco, comprese quelle cinematografiche: in particolare della Jane Eyre “espressionista” di Robert Stevenson (La porta proibita, 1944) e di quella gotica di Cary Fukunaga (2011); del film di William Wyler, La voce nella tempesta (1939) e di quello di Andrea Arnold (presentato a Venezia nel 2011 e mai distribuito in Italia: splendido il primo tempo). Di un fumetto intitolato anch’esso La voce nella tempesta, che mi aveva turbata da bambina e non ho più dimenticato. Del libro di Sandra Gilbert e Susan Gubar The Madwoman in the Attic (1979). Di Laurence Olivier, del femminismo e di Freud.

Monica Pareschi lavora da circa vent’anni come traduttrice letteraria e consulente editoriale, affiancando a queste attività quella di editor. Collabora in particolare con le case editrici Einaudi, Adelphi e i Meridiani Mondadori. Cura per Neri Pozza la collana Le Grandi Scrittrici, all’interno della quale è uscita una sua traduzione di Jane Eyre di Charlotte Brontë. Tra gli autori che ha tradotto e curato: Doris Lessing, Willa Cather, James Ballard, Bernard Malamud, Paul Auster, Alice McDermott, Shirley Jackson, Edith Wharton. Di prossima uscita per Einaudi la sua traduzione di Wuthering Heights di Emily Brontë. Ha insegnato traduzione letteraria all’Università di Pisa e alla Cattolica di Milano. Suoi racconti e interventi sono apparsi su blog e riviste. Nel 2014, per Italic Pequod, è uscita la sua raccolta di racconti È di vetro quest’aria. Con questo libro ha vinto il Premio Renato Fucini 2014 e una menzione speciale al Premio Arturo Loria 2014. È stata inoltre finalista al Premio Bergamo 2015. È tra i finalisti della sessantesima edizione del Premio Letterario Internazionale Ceppo Pistoia. Vive a Milano, con suo figlio.

Anna Karenina e le sartine
(pensieri stramati e poco seri su una traduzione serissima)

“Ah beh, certo che bisogna ritradurli, i classici. La lingua invecchia e va rimodernata!”.

Ecco, quell’ultimo verbo, un’orticaria…

Non sono la sola a patire, tuttavia. Verso la fine della prima parte, Anna Karenina litiga furiosamente, tanto da “vergognarsene al solo pensiero”, con la sarta alla quale ha lasciato tre abiti da (…sospiro…) rimodernare. Due non sono ancora pronti e uno non è come aveva chiesto che fosse. La sarta si giustifica, ribatte che secondo lei a quel modo sono persino meglio (e qua lo-zio-Freud-dei-traduttori gongolerebbe), ma Anna non intende ragioni.

Ogni volta che mi chiedono com’è stato ritradurre un romanzo che è un’icona della letteratura mondiale mi sento come quella povera sartina che - di sicuro - biascicava scuse a testa bassa: “No, non è bastato riprendere un paio di pieghe… Davvero, scucendo quella pince non si risolveva granché…”.

È innegabile, certo: nel corso dei decenni l’italiano si è smagrito quanto e più del moderno stereotipo della bellezza*, ma a essere davvero cambiato è innanzitutto il modo di guardare alla traduzione e alle traduzioni, che nel caso dei classici finivano spesso strizzate nel corsetto (ci ho preso gusto) dell’ “italiano buono”, l’unico che si credeva adatto a onorare quella particolare liturgia. Ora il guardaroba a cui attingere (sopportatemi, ho quasi finito) si è ampliato e articolato, e istiga i traduttori a pescare fra i vari “italiani” possibili il più calzante per tradurre i vari “russi” di Tolstoj, nel mio caso. Perché nemmeno Tolstoj scriveva in “buon russo classico”. Tolstoj scriveva da Tolstoj (banalità imbarazzanti, queste ultime, ma che per decenni tali non sono parse): il conte aveva le sue smaccatissime predilezioni lessicali e sintattiche, amava infilare tra le righe parole bizzarre di lessico familiare o di ambiti semantici non identificabili come “letterari”, e all’occorrenza non disdegnava metafore didascaliche per non dire rozze (divertitevi a cercare quante volte parla di DENTI).

Nelle traduzioni passate questo aspetto non saltava sempre all’occhio. Così come poco evidente era che ogni personaggio o quasi possedeva tic e cliché solo suoi: l’asettico Karenin non parla come il passionale Vronskij, che a sua volta ha poco dello smanceroso Oblonskij o del più prosaico Levin; il principe Ščerbackij ha trilli (deliziosi!) tutti suoi e i “pissipissi” di Anna, Dolly e Kitty sono altrettanto riconoscibili.

Ho infilato i miei aghi, dunque, con una lingua che spero risulterà sapida, ma priva di esibizionismi intesi solo a impolverare l’italiano per conferirgli una parvenza di antico (ho cercato una lingua “allontanata” nel tempo dalla ricchezza della gamma sinonimica, se vogliamo, e non da un’astrusità “autoattorta” - e mi perdoni Chlebnikov, se può), una lingua che mi auguro di avere saputo declinare nei vari ruoli, ovunque le veniva richiesto.

E che il “lurido vecchio”** mi assolva, se qualche cucitura non tiene.

*Perché, suvvia, Tolstoj non riconoscerebbe mai nell’ossuta Keira Knightley la sua floridissima (e vagamente baffuta) Anna.

** Mai mi permetterei! È Anna Achmatova che lo definisce tale, in una delle sue conversazioni con Lidija Čukovskaja.

 

Claudia Zonghetti, archeologa mancata, traduce dal russo classici e contemporanei. Oltre a Vasilij Grossman e Anna Politkovskaja, ha dato voce italiana a Pavel Florenskij, Varlam Šalamov, Nikolaj Gogol’ e Gajto Gazdanov. Ha esordito traducendo Dostoevskij e Bulgakov e non può che sognare di rimaneggiarli.

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