Qualche mese fa, complice una sfilza di settimane impietose talmente stressanti che mi svegliavo di botto alle 4 di mattina con in testa la scena di Frankenstein Junior nel cimitero (avete presente, no? “Potrebbe piovere”), ho cominciato a meditare.
Lo ammetto, io sono sempre stata affascinata dalla meditazione e dalle discipline orientali in genere: seguendo il principio di Hermione Granger (When in doubt, go to the library), ho letto molto sull’argomento, e a volte ho tentato anche di darmi alla pratica. Il problema era che i miei approcci si erano sempre svolti secondo uno schema non proprio debuttante-friendly, che seguiva all’incirca quest’andatura circolare:
Mi sveglio piena di buona volontà e decido che da stamani medito novantasei minuti al giorno, cascasse il mondo.
Inizio alle 5.30, così già che ci sono prima di iniziare ci metto due o tre saluti al sole e perché così fanno i veri yogi.
Me ne sto immobile nella (dolorosissima) posizione del loto completo, con le mani anchilosate nel Chin Mudra, la schiena dritta ma non rigida (eh?), la lingua poggiata sull’arcata dei denti superiori, la mascella rilassata, gli occhi chiusi, le spalle abbassate, a cercare di fare il vuoto dentro me stessa e a ricordarmi di non piegare la schiena, non aprire gli occhi, non stendere le gambe, non rilassare la lingua ecc ecc.
Rimango così, a non far niente, a non sapere esattamente che fare, per un’eternità, pensando che mi prude un tallone ma non posso grattarlo perché la meditazione è lasciar andare.
Il giorno dopo, quando la sveglia suona alle 5.30, penso distintamente “Maddeché”, mi giro dall’altra parte e mi riaddormento sotto il piumone.
Mi crogiolo nei sensi di colpa per tutto il giorno, quindi stabilisco che avrò ragione delle mie resistenze, da domani si ricomincia.
Mi sveglio piena di buona volontà e decido che da stamani medito novantasei minuti al giorno, cascasse il mondo.
(Proseguire ad libitum).

Chi ben comincia non è sempre a metà dell’opera

Vedete da soli quale fosse il problema con questo approccio, no? Non c’era proprio niente di rilassante in quello che facevo. Era solo l’ennesima lista di cose da fare che mi ero appuntata sul frigorifero, l’ennesima aspettativa irrealistica da (provare a) soddisfare, l’ennesima fonte di frustrazione che mi ero autoassegnata, da brava perfezionista che si rispetti.
Quando invece, più di recente, ho deciso di ritentare, l’ho fatto con la forza della disperazione: ero in un momento difficile il cui il confine tra me stessa e il mondo mi sembrava labile e fumoso; il corpo mi si ribellava di continuo, fulminandomi con coliti fantozziane e attacchi d’asma che mi facevano sembrare un carlino con l’enfisema; non riuscivo più a distinguere vita professionale e vita privata, e mi condannavo a sessioni lavorative di 14 ore filate (qualche freelance in sala si riconosce nella descrizione?).
E insomma ho deciso di riprovare a meditare, perché i vantaggi di questa pratica antica e potentissima mi erano ben noti: chi medita regolarmente gode di buona salute, controlla meglio ansia e stress, vive più a lungo, ha un cervello più giovane ed elastico dei suoi coetanei, impara a staccare la spina.
Per un freelance, poi, i benefici sono innegabili:

• Meditando la capacità di concentrarsi su un compito specifico aumenta sensibilmente (mai più pomodori interrotti dopo 7 minuti netti per sapere se Belen sta DAVVERO con Borriello)
• la solitudine di quei pochi minuti “unplugged” rigenera e ricarica
• la routine data dalla pratica sempre uguale a se stessa aiuta a mantenere la disciplina (vi sfido a lavorare in mutande dopo aver meditato: non potrete, perché adesso siete i portatori del divino e il divino non lavora in mutande)

Inoltre, la meditazione è essenzialmente l’eliminazione delle distrazioni, interne o esterne (vedetela come una sorta di decluttering, un metodo Konmari per il cervello): se siete in dubbio se trasferirvi in Nuova Zelanda, se siete preoccupati perché la vostra carriera di freelance non decolla, se non sapete come risolvere quel gioco di parole che vi ha bloccato una traduzione intera, dedicarvi alla pura e semplice osservazione di ciò che accade dentro di voi creerà lo spazio per piccole e grandi rivoluzioni.

Il meglio è nemico del bene

Per godere al meglio di questi vantaggi e salvarmi da un secondo round di frustrazione autoindotta, però, stavolta mi sono organizzata. Mi sono data delle regole, anzi per meglio dire delle regole anti-regola. Se siete aspiranti meditatori che però non tollerano di star fermi per più di cinque minuti, se non riuscite a spegnere il cervello, se non sapete mai dove diavolo mettere le mani, se vi chiedete se sia necessaria una laurea in demoetnoantropologia e religioni orientali per cominciare, magari saranno utili anche a voi:

1) Take the best and fuck the rest
Una delle cose che mi metteva più ansia quando cercavo di “fare tutto bene” era l’idea che la mia pratica di meditazione dovesse rispettare uno standard (e per di più lo standard di un monaco tibetano centotreenne che riuscirebbe a convincersi di essere davanti a una stufa meditando tra le nevi eterne dell’Himalaya, ma vabbè, che sono una puntacazzista non devo manco più dirvelo, no?). Mi sono liberata solo quando ho cominciato a decidere cosa faceva per me: basta orari obbligati, durate standard, precetti religiosi forzati, glossario in sanscrito imparato a memoria, posizioni proibitive; sì alle piccole cose che sento mie e che mi va di conservare, come la scelta della meditazione buddhista invece della mindfulness e l’idea del Sanpalka, ovvero la “buona intenzione”, una sorta di desiderio espresso prima di cominciare, a cui dedicare la pratica di quel giorno e verso cui convogliare le energie.

2) Chi va piano…
Sono dell’idea che chi non riesce a star fermo per più di cinque minuti all’inizio non dovrebbe meditare per più di cinque minuti. Come ogni pratica, la meditazione richiede esercizio, diventa più semplice man mano che si va avanti e poiché punta a una maggiore serenità non dovrebbe mai essere forzata o imposta. Secondo lo stesso principio, se all’inizio vi svegliate una mattina su tre o se preferite meditare la sera alle 11, non muore nessuno (garantito, Buddha nemmeno piange).

3) Fàmola semplice
Uno dei drammi di chi comincia a meditare è l’aspetto fisico della faccenda: come mi metto? Ho la sciatica! E se mi fanno male le ginocchia? La posizione nella meditazione è importante, ma per essere mantenuta il più a lungo possibile deve essere costante, salda e comoda: tre cose che non vanno d’accordo con le articolazioni sbiellate. Quindi io mi sono limitata all’essenziale: ho provato le quattro più facili (seduta a terra a gambe incrociate; su una sedia con lo schienale rigido; sdraiata; in ginocchio, con i glutei sui talloni) e ho scelto quella che trovavo più fattibile. Lo stesso vale per le mani (che si possono tenere aperte sulle ginocchia col palmo verso l’alto; sempre poggiate sulle ginocchia, nella posizione del Chin Mudra; a coppa, in grembo, la sinistra sotto la destra).

4) Una guida, grazie
Stavolta, come dicevo, sono arrivata preparata, e non mi sono nemmeno sognata di provare a meditare da sola, per 40 minuti, nel silenzio più totale (situazione che si trasforma subito in un coacervo di pruriti, amiche da richiamare che non senti dalle medie, fastidi articolari, origliamento dei vicini che litigano, ansie forsennate che ti azzannano – oddio, ho chiuso il gas? Esploderò? Che faccio, mi alzo e controllo?). Uso invece un’app specifica, scelta tra diverse che ho provato: infilo le cuffiette e mi affido alla suadente voce femminile che mi dice esattamente cosa fare e quando farlo. Come avere Osho a casa, comodissimo.

5) L’alfa e l’omega
Almeno per me, uno degli aspetti più gratificanti della meditazione è il rituale: l’idea di poter dedicare 15 minuti a me stessa, ogni giorno, alla stessa ora, dovunque mi trovi, mi centra e mi aiuta a iniziare la giornata col piede giusto. Per questo curo i minuti pre-meditazione e il dopo quanto la pratica stessa: prima di cominciare (appena sveglia) faccio un po’ di stretching, bevo un bicchiere d’acqua, apro la finestra. Quando ho finito muovo mani e piedi per riattivare la circolazione, ripeto il Sanpalka, mi alzo e vado a fare colazione, che in genere prevede porzioni da camionista e una moka da tre svuotata mentre ancora ha temperature laviche. Non è colpa mia, davvero: è che avvicinarsi alla santità mette fame, provare per credere.

(Tra le app migliori per inizire a meditare le mie preferite sono Calm e Headspace; la prima è essenziale e rilassante, la seconda più colorata e vivace. Sono entrambe a pagamento, ma le versioni gratuite hanno abbastanza materiale per iniziare. Se preferite leggere e vi interessa anche un po’ di teoria, i blog La scimmia yoga e The Healthy Freelancer sono un ottimo punto di partenza. Buona meditazione!)

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